È l’inizio di dicembre 2022 quando, in una galleria d’arte di Los Angeles, gli appassionati di fotografia si ritrovano davanti agli scatti di una coppia di fotografi biellesi. E quei fotografi eravamo noi, Linda Zambolin e Francesco Tori. Ma come siamo sbarcati in America?
Ecco la storia dall’inizio: perché i sogni, quando si avverano, meritano di essere raccontati per benino.
Come siamo sbarcati in America: ecco come tutto è iniziato
Era la primavera del 2022 ed eravamo a un evento del FAI, durante il quale tutte le dimore storiche del territorio hanno aperto le porte ai visitatori per divulgare la loro storia e quella del Biellese.
In quest’occasione abbiamo visitato Casa Regis, un centro di cultura e arte contemporanea. La cosa curiosa è che è capitato per pura casualità, perché saremmo dovuti andare in una dimora più vicina, ma quel giorno c’era stato un tale afflusso di persone da far fare il tutto esaurito a metà pomeriggio.
A quel punto, volendo comunque visitare qualcosa per noi inedito, abbiamo dirottato verso Casa Regis a Marchetto di Mosso, in Valdilana. Un edificio inserito in una piccola frazione, ma particolarmente affascinante e recuperato con grande attenzione mantenendo intatte le sue caratteristiche pregresse: gli affreschi originali delle volte, i pavimenti e il giardino all’italiana, un esempio di raro pregio.
In quella giornata particolarmente affollata, perché anche in quel caso l’affluenza aveva obbligato a ridurre gli ingressi, siamo riusciti ad entrare, ad ammirare la bellezza e a percepire sensazioni di un tempo ormai lontano che affreschi, porte, stanze e corridoi trasmettevano. Osservando dalle finestre siamo stati ricondotti alla realtà da una vista incredibile verso le vallate biellesi.
Da lì a poco, dalle scale in pietra che collegavano il pian terreno al primo, è scesa una figura minuta con una chioma molto particolare che, con accento straniero, ha chiesto a noi e alle altre persone che si erano accomodate nella villa se eravamo interessati a fare l’ultimo giro conoscitivo del luogo. Accettando incuriositi da quell’ambiente a noi affine dal punto di vista estetico e stilistico, abbiamo ascoltato tutta la storia.
Ormai soddisfatti, ci siamo indirizzati verso l’uscita e la proprietaria ci ha chiesto se avevamo gradito la visita, invitandoci ad apporre la nostra firma e a scrivere in modo chiaro la nostra email sul registro delle presenze. Linda a quel punto, prontamente, ha estratto il nostro biglietto da visita spiegando in poche parole di che cosa ci occupiamo. A quel punto l’esile signora si è presentata dicendoci che anche lei si occupa di fotografia, in particolare quella artistica.
Ed è così che Mikelle Stanbridge, questo il suo nome, è diventata un’amica e un punto di riferimento con cui parlare di arte. Solo in seguito, dopo tante altre chiacchierate e incontri, è diventata colei che ci ha permesso di conoscere la gallerista che ci avrebbe ospitato a Los Angels l’inverno successivo. Ma andiamo per ordine.
Da un incontro per caso a… Los Angeles
In primavera, appunto, dopo aver mostrato a Mikelle i nostri progetti fotografici d’arte, abbiamo iniziato il nostro percorso artistico. Da progetti che esprimono sensazioni personali, custoditi quasi gelosamente aspettando colui o colei in grado di comprendere il messaggio intimo in essi contenuto, i nostri lavori si sono svelati interessando sempre di più Mikelle non solo per le immagini, ma anche per i contenuti e la ricerca, portandola a contattare Victoria Chapman.
Victoria è una curatrice d’arte -laureata alla School of the Museum of Fine Arts di Boston presso la Tufts University- che vive e lavora a Los Angels, dove ha fondato il suo centro espositivo “El nido” portando avanti il proprio progetto personale chiamato VCproject.
A luglio del 2022 ci siamo così trovati a condividere i nostri lavori artistici con Mikelle e Victoria, che in quel periodo si trovava in Italia.
È stato per noi senza ombra di dubbio un incontro rivoluzionante, che ci ha portati in un’altra dimensione: finalmente, ciò che avevamo creato come un universo parallelo al settore pubblicitario in cui lavoriamo e viviamo tutti i giorni, è stato compreso a fondo e accolto con grande entusiasmo da parte di una persona del mestiere. Dopo l’incontro, la sua risposta è stata: “valuto ciò che ho visto e vi faccio sapere se riusciamo ad organizzare una mostra presso il mio spazio artistico”.
Un giorno di ottobre ci ha chiamato Mikelle, era un giorno come tanti altri, ma per noi stava per diventare “quel giorno”: infatti, ci ha detto che Victoria voleva esporre il nostro progetto “Echi”.
Non ci potevamo credere! Stava capitando davvero, a noi! E così, in fretta e furia, abbiamo affrontato tutte le dinamiche riguardanti la scelta della tiratura, come presentare le stampe e come spedire in America il nostro lavoro.
In un post sui social, Victoria ha scritto che il fattore che l’aveva convinta ad esporci era “l’intimità emozionale che le foto esprimono” e che un giorno, nel traffico soffocante di Los Angeles, aveva avuto una folgorazione e un rimando visivo alle immagini viste insieme a noi nella sua visita in Italia. In quel momento aveva sentito concretamente la necessità di dover fare qualcosa per far conoscere quelle sensazioni anche al suo pubblico.
Ed è così che il 3 dicembre 2022 si è realizzato un piccolo grande sogno e allo stesso per noi una grande opportunità, la nostra prima mostra internazionale in America.
Victoria ha fatto un lavoro di presentazione sui social superlativo, è stata entusiasta della risposta positiva del suo pubblico e ciò ci ha fatto un immenso piacere; per noi è stata una doppia soddisfazione: non aver deluso le sue aspettative e aver suscitato ammirazione fuori dal nostro territorio verso un pubblico totalmente imparziale e curioso di osservare un progetto riguardante le bellezze naturalistiche Italiane, in questo caso le cascate di Lillaz in Valle d’Aosta.
Di che cosa parla il progetto Echi
Il progetto che ha piacevolmente colpito Victoria si chiama Echi.
Si tratta di un progetto fotografico che raffigura l’ascesa alla cima seguendo il corso di una cascata. Il percorso, scandito in varie tappe, rappresenta un cammino di tensione ascensionale a cui si accompagna una progressiva distensione emotiva, permettendo di ritrovare il giusto equilibrio tra mondo interiore e mondo esteriore.
L’osservatore viene posto di fronte all’imponenza del paesaggio montano dominato dall’acqua. Questo elemento, attraverso il richiamo alla forza e alla violenza di una natura primigenia, lo invita a meditare sulla propria collocazione nello schema del cosmo e a rivedere le proprie priorità.
L’estetica vittoriana delle immagini stimola ad osservare il soggetto non da una prospettiva puramente rappresentativa, ma da un punto di vista sensoriale e sinestetico, portando l’osservatore a sintonizzarsi sulla frequenza che giunge davanti a una cascata, su quel rimbombo di acqua che penetra fino al cuore. Un suono naturale che è già memorizzato in noi dalla notte dei tempi e che, ascoltato incessantemente, cancella il rumore di fondo dei pensieri e, come un eco, risuona ponendo equilibrio e pace.
Le cascate Lillaz, soggetto e scenografia del nostro progetto
Quando Victoria ci ha chiesto che cosa ci aveva spinti a raggiungere proprio quella determinata località, le abbiamo risposto che è stato sicuramente l’interesse per l’ambiente, ma non necessariamente quello paesaggistico.
In questo caso la scelta è stata dettata dalla curiosità di osservare da vicino una delle attrattive paesaggistiche più belle del territorio valdostano, in prossimità di Cogne, in uno dei parchi nazionali più belli presenti sul territorio italiano.
Le cascate Lillaz, che prendono il nome dall’omonima frazione situata a Cogne, sono caratterizzate da tre salti d’acqua del torrente Urtier, con un’altezza complessiva di 150 metri: secondo alcuni geologi, il limite che separa le varie tipologie di rocce presenti corrisponde a un “contatto tettonico”, e cioè quando in pochi metri si passa da rocce continentali a rocce formatesi sul fondo dell’oceano.
Il nostro approccio fotografico è stato dettato da ciò che abbiamo percepito dall’ambiente. Non c’era un progetto in particolare nella nostra mente, ma più che tutto c’era l’interesse di rappresentare tramite l’immagine lo stato emozionale che ci trasmetteva il paesaggio naturale.
Infatti, come si può notare dalle foto, le riprese sono state eseguite a volte con esposizioni veloci e altre volte con quelle più lunghe. È stato un cammino che dal basso ci ha portato verso la parte più alta della cascata, luogo in cui è stata collocata una croce, simbolo dell’uomo e del suo passaggio.
In studio, dall’osservazione delle foto, abbiamo potuto vedere come sembravano rappresentare non più un paesaggio montano, ma una similitudine tra l’interiorità umana a volte confusa e a volte equilibrata e il percorso dell’acqua anch’esso rocambolesco tra le rocce e invece quieto in altri frangenti; come forze contrastanti che osservate delineano la fragilità dell’uomo.
Da questa osservazione del paesaggio è nata l’esigenza di trasmettere il concetto di cammino interiore partendo dalla confusione della realtà di tutti i giorni fino al raggiungimento più elevato dell’equilibrio tramite l’ascolto della frequenza dell’acqua: da qui il titolo Echi.
Ecco, l’acqua che picchia sulle rocce riflette un suono a noi primigenio che cancella il rumore di fondo dei pensieri e, come un eco, risuona ponendo equilibrio e pace.
Come siamo arrivati a questo stile fotografico
Durante l’inaugurazione della nostra mostra a Los Angeles, che è stata un enorme successo in termini di affluenza, molti ospiti hanno chiesto a Victoria se il nostro lavoro fosse stato girato in pellicola o in digitale e, ovviamente, ci ha fatto molto piacere aver stimolato questa domanda.
Infatti, il progetto è stato scattato e sviluppato in digitale, ma con approccio analogico. Noi abbiamo avuto una formazione a pellicola, avendo iniziato la nostra carriera agli inizi degli anni 2000 quando ancora la pellicola era molto utilizzata.
Nel tempo, per via della nostra professione di fotografi commerciali, abbiamo intrapreso l’utilizzo del digitale apprezzando in molti casi la velocità e l’elasticità del mezzo e, soprattutto, la possibilità di manipolazione in post-produzione.
Ad oggi questa tecnologia ci è tornata utile per riprendere ciò che era iniziato a partire dal 1850 dai primi fotografi e dei primi processi di stampa. Artisticamente il nostro punto di arrivo e di ricerca. Parliamo quindi di calotipia, d’immagini lontanissime dalle linee stilistiche moderne.
La scelta di questa estetica di carattere fortemente romantico è dettata dal fatto che grazie all’utilizzo di particolari gamme tonali, di sfocature selettive e di un’ulteriore manipolazione eseguita a mano come la pigmentazione e la creatura a caldo, l’osservatore viene portato ad interiorizzare l’immagine e quindi a percepire il messaggio in essa contenuto. Anche la scelta di stampare in formato 15×22 cm non è casuale. Infatti, oltre al fatto di rifarci stilisticamente alle prime stampe di metà ‘800, riteniamo che la ridotta dimensione porti l’osservatore ad avvicinarsi, avendo così una sorta di empatia visiva ed emozionale creando un momento d’intimità sensoriale con ciò che sta osservando.
Non ci sono particolari impostazioni, ma tanta analisi di vecchie fotografie d’epoca viste sui libri e tanti tentativi fino a trovare il nostro personale stile fotografico che esprime ciò che noi sentiamo nell’approcciarci al paesaggio.
E quindi, in conclusione, chissà dove ci porterà la prossima esplorazione fotografica? Magari, un giorno, perfino in America! 😉 Noi continuiamo su questa strada, perché è sicuramente la via giusta.
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